Un film di Emerald Fennell. Con Carey Mulligan, Bo Burnham, Laverne Cox, Clancy Brown.
Drammatico, durata 108 min. – USA 2020.
Una riflessione in chiave dark sulla cultura dello stupro e la sua accettazione come sistema di potere.
La trentenne Cassie ha buttato al vento ogni speranza: da quando ha abbandonato gli studi di medicina lavora in un piccolo bar, vive coi genitori e ogni weekend gira per locali facendosi abbordare da sconosciuti. Cassie in realtà ha un piano: fingendosi ubriaca, intende dimostrare come ogni uomo che la abborda nasconda il desiderio di violentarla o possederla con la forza. Nel suo passato c’è un trauma che ha segnato il suo destino, un evento che l’incontro con Ryan, ex compagno del college, riporta a galla. Combattuta fra l’interesse per Ryan e il desiderio di chiudere i conti con il passato, Cassie darà una direzione definitiva alla sua vita.
Negli Stati Uniti ci è voluto un anno, dalla presentazione al Sundance nel gennaio 2020 all’uscita nel dicembre successivo, per fare di Una donna promettente un caso: nomination ai Golden Globes come miglior regista per Emerald Fennell, ex attrice al primo lavoro per il cinema; nomination come miglior interprete femminile per Carey Mulligan (e possibile Oscar fra qualche settimana); polemiche virali per una recensione di gennaio di Variety smentita e corretta undici mesi dopo dalla stessa testata («Variety sincerely apologizes to Carey Mulligan and regrets the insensitive language and insinuation in our review that minimized her daring performance»); osanna generalizzati della stampa americana che ha esaltato la capacità del film di cogliere nel segno («Puck the punch», ha scritto IndieWire) e di «ribaltare gli elementi più noti di un genere dark raccontando il senso di colpa condiviso da chi detiene il potere» (New Yorker).
È difficile, in effetti, trovare un film più attuale e aggiornato ai diktat hollywoodiani di Una donna promettente, a partire naturalmente dal tema dello stupro e della sua accettazione in una società retta da principi di potere paternalisti e maschilisti. Trentatré anni fa, nel 1988, Jodie Foster arrivò al suo primo Oscar per aver interpretato la parte di una donna violentata e capace di accusare i suoi violentatori: il film si chiamava Sotto accusa, l’aveva diretto un uomo, Jonathan Kaplan, e nonostante la forma oggi sorpassata del crime movie e del film processuale era in grado di inserire la cultura dello stupro in una cornice sociale, punendo la colpa degli stupratori con gli strumenti della legge.
È significativo, invece, che a tre decenni di distanza, lo stesso tema sia trattato in una chiave totalmente soggettivizzata, con la protagonista del film che, ferita da una violenza subìta non in prima persona, non solo si trasforma in una vendicatrice, ma addirittura, nella sua parabola simbolica e narrativa, si pone oltre la legge e oltre il film stesso (di cui è eroina e deus-ex-machina).
L’ex donna promettente Cassie, incapace di laurearsi, di affrancarsi dai genitori, di trovare un lavoro degno delle sue capacità, infantilizzata dal trauma (si traveste di continuo, rifiuta la sessualità, si relaziona con gli altri sputando, vive bloccata in una logica di provocazione e rivalsa), ha trasformato lo stupro nel principio generatore della sua identità, portandolo da una dimensione collettiva a una personale e personalizzata (l’esatto contrario di quanto scrive il New Yorker, insomma).
Cassie (a cui Carey Mulligan offre un volto e un corpo di notevoli capacità mimetiche, tanto fragile quanto aggressiva) non alcuna ha possibilità di evoluzione, è parte di un meccanismo ripetitivo e invariabile (la donna debole abbordata dall’uomo prevaricatore), valido più di qualsiasi sentimento o affezione verso i personaggi. La forza di Una donna promettente – e va detto la sua ambiguità ideologica – sta proprio nella scelta di campo estrema: per la regista e sceneggiatrice Fennell lo stupro è un demone e la colpa di chi l’ha perpetuato una colpa collettiva, senza redenzione né per i colpevoli, né per i personaggi all’apparenza positivi (e la svolta narrativa del prefinale è davvero un colpo basso), né per la stessa protagonista.
A dimostrazione del tentativo della regista di portare il vecchio cinema d’impegno civile nei territori intimisti e ironici dell’indie (una formula esaurita anche a livello stilistico, iperrealista, colorata e griffata ma vittima della sua stessa consapevolezza, come nella scena da commedia romantica accompagnata da una canzonetta di Paris Hilton), il film sacrifica sull’altare della lettura politica ogni aspetto narrativo e ogni possibilità di libertà o di fuga dall’orrore prestabilito. Viene in mente The Life of David Gale di Alan Parker, schiarato contro la pena di morte in modo cinico e fintamente progressista, così come in Una donna promettente il passaggio da un destino individuale a una condanna comune svuota di valore la missione della protagonista, dal momento che non viene offerta la possibilità di superamento del trauma, ma solo la sua trasformazione in feticcio.
È possibile che Una donna promettente diventi un film epocale. È probabile, anzi certo, che sia un film espressione del proprio tempo, e quindi da prendere sul serio. Ma lo è altrettanto che giuste cause abbiano bisogno di discorsi più maturi. (MYmovies)