GLI ABBRACCI SPEZZATI
Un magistrale omaggio al cinema classico che cancellando la passione conserva la qualità
Mateo Blanco è stato un regista. Oggi non lo è più. È un non vedente che ha deciso di tagliare i ponti con il passato cambiando anche nome. Ora firma romanzi, soggetti e sceneggiature con lo pseudonimo Harry Caine. È ancora un uomo affascinante che ha deciso di prendere dalla vita quello che gli può ancora dare ma, al contempo, che sa di avere un grande bisogno dell'assistenza della produttrice Judit e di suo figlio Diego. La donna conosce perfettamente il tragico triangolo che ha visto coinvolto Mateo, il ricco Ernesto Martel e l'affascinante Lena. Harry deciderà di narrarlo anche a Diego.
Pedro Almodóvar può essere definito il Giano Bifronte del cinema contemporaneo. Come l'antica divinità ha uno sguardo che si volge al passato e uno indirizzato al presente e al futuro. Alternativamente, e secondo modalità che verrebbe da definire programmatiche, ce ne presenta ora l'uno ora l'altro. Se in Volver l'occhio era rivolto a un presente di passioni e di sentimenti che si volgevano verso un passato individuale che ne innervava l'essenza, in Gli abbracci spezzati lo sguardo è rivolto rigorosamente all'indietro, verso il cinema e il piacere della costruzione narrativa tanto inattaccabile quando fredda.
Tutto è magistrale nel suo cinema e quindi anche qui. La cecità come condizione esistenziale in cui l'immagine si fa ricordo, il cinema classico che finisce con l'ispirare addirittura il titolo del film (la sequenza del ritrovamento dei due cadaveri colti abbracciati dalla lava in Viaggio in Italia di Rossellini vista dai due protagonisti in un momento di distesa intimità), il cinema che narra il farsi del cinema nello stesso momento in cui mette in gioco un artificio narrativo tanto palese da dover essere denunciato («Questo è un fatto che succede solo nei film»). Tutto ciò e molto altro è presente nel film del regista mancheco che sfoggia come sempre rigore stilistico e cinefilico. Onore al merito. Ma la sua grandezza si esalta maggiormente quando, sulle orme del suo conterraneo letterario, combatte, vincendo, con i mulini a vento che agitano il cuore dell'essere umano.
Giancarlo Zappoli (mymovies.it)
LA CRITICA
Almodóvar. Omaggio al mistero del cinema
di Roberto Silvestri Il Manifesto
Ci sono cineasti, come Hitchcock o Preminger, che amano raccontare storie con le immagini, rendono inquietante l'avventura dello sguardo, ma senza farsene accorgere, non provocando e intimorendo platealmente la platea (Lars von Trier adora, invece, il terrore di primo grado, anche se cambia sempre il piano d'attacco).
Il cineasta spagnolo, regista e produttore, Pedro Almodóvar fa parte dei cineasti del primo tipo, ma non utilizza le tecniche classiche (uno spazio del racconto omogeneo, l'effetto verosimiglianza) bensì mixa schemi emozionali differenti e disomogenei (la passione del melodramma, la freddura del comico, il suspense del thriller, la concettualità della commedia...) come un veejay che sa di dover comunicare con corpi bisognosi di sostanze speciali per sopravvivere, abituati al frammento e allo shock, indocili ai piaceri visuali basati sulla continuità di luci e suoni e scene e su un unico punto di vista. E stavolta vuole fare una dichiarazione totale al cinema, e non ad alcuni film, ma al mistero del cinema come macchina produttrice di piacere e dolore, e alla realtà di chi lo fabbrica, nessuna maestranza esclusa... Paradossalmente, infine, scegliendo un eroe...cieco.
Infatti Almodóvar è reduce da una esperienza traumatica. È stato piuttosto male negli ultimi due anni, ci racconta in un'intervista, e ha subito trattamenti medici che esigevano la completa oscurità per ore. Ha voluto così immedesimarsi nel «cieco», e quasi ha reso omaggio allo scultore, all'artista protagonista del più erotico e sadico dei film sui non vedenti, il thriller giapponese Blind date, di Masumura. E ci racconta una doppia storia d'amore intrecciata tra un ricco industriale e sua moglie Lena (Penélope Cruz), che diventerà la storia d'amore parallela e fatale tra lei e Mateo, il regista che la scrittura, visto che lei è desiderosa di far l'attrice. Il marito si trasforma in produttore pur di controllarne ogni mossa sul set, e le mette alle costole il figlio, munito di cinepresa, con il compito di fare il making off più integrale mai concepito... La gelosia ossessiva provocherà violenze, fughe nell'isola vulcanica di Lanzarote, cambiamenti di nome e di identità, incidenti dalle scale e d'auto e perfino l'assunzione di una tecnica del linguaggio labiale che farebbe così comodo durante la Domenica sportiva quando si deve scoprire cosa ha detto Ibrahimovic a Mourinho... Alla fine lei muore e lui diventa cieco, si ricicla in sceneggiatore con il computer modificato (parlante) e 14 anni dopo l'incidente stradale che causò la morte della sua amata riappare il figlio filmaker, copione in mano, e la segretaria del regista che svela alcuni retroscena più che inquietanti: il melodramma diventa una polifonia di sentimenti incrociati e incrostati che fanno di Los abrazos rotos (Gli abbracci rotti) un oggetto di difficile piacere primario. Ovvio che Almodovar abbia messo dentro il film anche un numero considerevole di riferimenti alla storia del cinema, con tanto di quiz (Arthur Miller, dopo Marilyn, quante mogli ha avuto, e quanti figli, e si è sempre comportato bene con i figli, soprattutto handicappati? E ai flussi emozionali di qualche capolavoro noir (a Laura, per esempio), e brani veri e propri da film (uno per tutti Viaggio in Italia, la scena della visita alle rovine di Pompei). Alla fine però, nel flamenco struggente finale sui titoli di coda, con il suo ripetitivo ritmo avvolgente e mortale, ci offre la chiave del film, della vita e del cinema. L'accettazione della vita, un grande sì alla vita, fin dentro alla morte, alla fine, al The end.
Se la vita è un film
di Alberto Crespi, L'Unità
Prendiamola da lontano: secondo noi i due film perfetti di Pedro Almodovar sono Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Tutto su mia madre. Il suo capolavoro, però, è Volver. Ci spieghiamo. Donne è la mirabile sintesi del primo Almodovar, quello chiassoso e variopinto degli esordi: il film in cui le stravaganze sessuali ed esistenziali della movida post-franchista confluivano in una perfetta struttura da commedia sofisticata. Tutto su mia madre è il Pedro maturo, che trasforma le follie del passato in una potente cognizione del dolore. Volver è il gioiello che tiene insieme queste due anime, raccontando – ed è forse la prima volta – personaggi che non hanno più nulla di stravagante ed esotico, ma affondano le proprie radici nella Spagna profonda.
Pedro Almodovar è ovviamente un magnifico regista, ma è soprattutto uno straordinario sceneggiatore. Le sue narrazioni multi-strato sono degne di Cervantes, o del Potocki del Manoscritto trovato a Saragozza. Gli abbracci spezzati è un film in cui l'Almodovar sceneggiatore mette un po' in ombra l'Almodovar regista – e chissà quanto è simbolico, e consapevole, il fatto che il protagonista sia un regista divenuto cieco e quindi costretto a scrivere copioni! Almodovar ama usare cinema e teatro, nelle sue storie, per dare un secondo livello di lettura, quasi una doppia vita, ai personaggi. In Gli abbracci spezzati questo secondo livello oscura il primo, impedendo ai personaggi di avere la sfrenata, ironica, tragica vitalità delle sue opere migliori. Insomma, ci siamo capiti: questo è un Almodovar «medio», ma sarà bene chiarire che un Almodovar medio è infinitamente migliore di quasi tutti i film attualmente in circolazione nelle sale. Il protagonista è l'ex regista Mateo Blanco (Lluis Homar): divenuto cieco per un incidente, ha assunto lo pseudonimo di Harry Caine (allude al James Cain di Il postino suona sempre due volte, ma letto tutto di fila suona come «hurricane», uragano) e scrive sceneggiature. Il suo nuovo assistente Diego lo incita a raccontare il suo passato, e a rievocare il tormentato rapporto con Lena (Penelope Cruz). Lena era l'amante di un riccone che, per assecondare le sue velleità da attrice, si era trasformato in produttore e aveva assunto Mateo per girare un film; ma naturalmente, sul set, Lena e Mateo si erano innamorati, con conseguenze disastrose. Il continuo rimando fra cinema e vita ha momenti strepitosi, come le scene in cui il magnate cornuto assume una «lettrice di labbra» (Lola Duenas) per capire cosa si dicono davvero Lena e Mateo sul set. Ma la struttura a incastri, pur sofisticata, è lievemente laboriosa, senza raggiungere gli abissi di profondità e di disperazione della Mala educacion. La coppia Homar-Cruz non è paragonabile, per recitazione, ad altri film di Pedro: il meglio lo regalano due magnifiche comprimarie, la citata Duenas e la sempre brava Blanca Portillo (non a caso erano accanto alla Cruz in Volver).
"Gli abbracci spezzati" tenero Almodòvar
di Lietta Tornabuoni, La Stampa
Grande melodramma. Una ragazza bellissima molto povera va a vivere con un uomo d'affari anziano molto ricco che l'ama follemente, ma non rinuncia al proprio sogno di essere attrice di cinema. Per accontentarla e per non perderla, l'uomo d'affari diventa finanziatore e produttore della commedia brillante Chicas y muletas, ragazze e valigie, in cui lei ha la sua prima parte importante. La ragazza e il regista s'innamorano. Geloso e sospettoso, l'uomo d'affari li spia, incarica il figlio di girare in video ciò che i due fanno, assume una lettrice di parole sulle labbra per farsi riferire quanto dicono. Appena finito il film, ragazza e regista fuggono a Lanzarote, rifugiandosi soli in un bungalow sull'incantevole spiaggia di Famara. In un incidente d'auto (voluto? casuale?) la bellissima muore, il regista (come in Woody Allen) diventa cieco. Intanto l'uomo d'affari, pazzo di dolore, ha fatto completare il film nel modo peggiore, scegliendo le scene mal riuscite, la recitazione sciagurata e l'ha messo nei cinema allo scopo di svergognare il regista. Come lieto fine il regista, che ha scoperto di avere un figlio, decide di mettere a posto il film: il cinema è troppo importante, si deve fare anche senza poterlo vedere.
La storia appassionata e fiammeggiante s'intreccia in filigrana con l'altra grande storia di Almodóvar, la propria vita di cinema. Il cinema è sempre presente: nei personaggi, nella lavorazione del film, nelle riprese di vita quotidiana, nella lettrice di parole sulle labbra (il doppiaggio), nelle immagini di Ingrid Bergman e George Sanders in Viaggio in Italia di Rossellini, nelle inquadrature di strumenti obsoleti per la lavorazione cinematografica. Specialmente nello stile de Gli abbracci spezzati, che ne fa un perfetto thriller hollywoodiano degli Anni 40-50, sul genere di Gilda o simili, molto ben fatto e bello. Almodóvar sembra aver perduto con il tempo il suo speciale sarcasmo e persino il grottesco. Questo film non somiglia affatto ai primi film farseschi che lo hanno reso tanto amato e popolare in Europa. È invece tenero, dolce: l'ironia si esercita sul genere, non sulle emozioni dei personaggi, e il cambiamento non rende il film meno amorevole.
Nella cineteca di Almodovar
di Paola Casella, Europa
Per potersi orientare ne Gli abbracci spezzati, il ricco e complicatissimo film di Pedro Almodovar, bisogna immaginarselo come una matrioska: un film nel film nel film. E mettersi in testa, anzi negli occhi, fin dall'inizio che si tratta di una riflessione sullo sguardo, sulla sua potenza ma anche sulla sua infinita (in quanto umana) fallibilità, e che questa esplorazione sull'immagine conta assai più della trama. «È la prima volta che faccio una dichiarazione d'amore così esplicita al cinema, non con una sequenza specifica ma con tutto un film», ha detto il regista. E infatti Gli abbracci spezzati è una citazione continua, da Hitchcock ai capolavori del noir, dal melodramma alla commedia (compresa quella che ha reso famoso Almodovar, Donne sull'orlo di una crisi di nervi), da Bunuel a Welles a Truffaut a Stahl perché, come ha detto Almodovar, «ho voluto raccontare il mio rapporto con il cinema più come spettatore che come regista». Ma questo, come ha scritto il critico di Le Monde dopo il passaggio in concorso a Cannes, questo non è quello che ci si aspetta da Almodovar: mancano l'esuberanza e l'entusiasmo, manca la passione (inaspettatamente, visto che è un film che, tra le altre cose, racconta un amour fou), manca quel modo di girare "di pancia" che ha reso celebre il regista madrileno e commosso le platee di tutto il mondo, con film emotivi come Tutto su mia madre. Gli abbracci spezzati è invece quasi completamente cerebrale, anche se la riflessione del regista è tradotta in immagini che lo rendono fortemente visivo poiché, come abbiamo detto, i protagonisti sono lo sguardo e il punto di vista di un regista. E dunque è giusto mettere in guardia i fan di Almodovar sul fatto che questo è un film almodovariano nelle immagini, nei colori, nella scelta degli attori, ma non lo è nell'immediatezza espressiva, né nell'impatto emozionale. Questo è il tipo di opera che cinephile e critici si divertiranno a scomporre, ma che potrebbe lasciare deluso il grande pubblico abituato a quegli ottovolanti del cuore che sono i film del Pedro caliente. La storia è quasi impossibile da raccontare, tanto è intorcinata. I quattro protagonisti sono un regista (Lluis Homar), l'attrice di cui il regista si innamora (Penelope Cruz, come al solito mostruosamente brava), una direttrice di produzione (Blanca Portillo) e un giovane sceneggiatore (Tamar Novas). Per questi quattro, come dice il regista, «la cosa più importante è fare il film» («La battuta essenziale de Gli abbracci spezzati», ha ammesso Almodovar). Accanto a loro, due predatori di cinema che hanno lo stesso nome e sono padre e figlio: l'uno è un finanziere che ha fatto i soldi speculando sulle vite degli altri e adesso si improvvisa produttore per accontentare la giovane moglie (Cruz), l'altro un omosessuale innamorato del regista del film in cui recita la sua matrigna, che con la scusa di girare un making of spia ogni mossa della donna portando il "girato" al padre che, attraverso una lettrice di labbra, trasforma questi piccoli film muti in film "di denuncia". Le dinamiche fra i personaggi sono molteplici, ma ciò che importa veramente ad Almodovar sono i concetti di sdoppiamento (che in spagnolo vuol dire anche "raddoppiamento") e di rifrazione. Queste immagini eternamente duplicate, riprodotte, spezzate sono anche eternamente fuorvianti: il regista protagonista della storia diventa addirittura cieco, ma anche gli altri personaggi vedono solo ciò che possono, o vogliono, vedere, e prendono ripetute cantonate. Dunque anche per gli spettatori le illusioni ottiche sono molteplici (la principale è la trasformazione di Penelope Cruz nella reincarnazione di Audrey Hepburn). Ci sono continui omaggi all'arte di manipolare la realtà attraverso le immagini, e un'ode nostalgica al montaggio prima dell'avvento delle alte tecnologie: «È bello che oggi si possa fare tutto con tecnica, ma così si perde l'emozione», ha detto Almodovar. «Col vecchio montaggio le immagini si potevano toccare, oggi si è persa la tattilità degli elementi che formano una pellicola» (da notare che in spagnolo l'intero film si chiama "pelicula"). L'effetto finale è vertiginoso (tanto per citare uno dei film omaggiato da Gli abbracci spezzati), e se ci si lascerà prendere dal gioco si adorerà questo tour de force per la mente e per gli occhi. Altrimenti si rimpiangeranno le pasionarie di Volver e Tutto su mia madre.

GLI ABBRACCI SPEZZATI
Con
Penelope Cruz
Lluís Homar
Blanca Portillo
José Luis Gómez
Rubén Ochandiano
Drammatico, durata 129 min.
Spagna, 2009