Presso le Ca’ Vecie a Marano Vicentino
Ingresso €4,00
In caso di maltempo la proiezione sarà spostata al cinema Campana.
Un film di Steven Spielberg. Con Ansel Elgort, Rachel Zegler, Ariana DeBose, David Alvarez.
Drammatico, durata 156 min. – USA 2021.
“Ma che musical, Maestro! Spielberg fa suo il grande schermo con un remake che splende come un originale.”
New York, 1961, due bande sono in guerra per il controllo del West Side. Da una parte i Jets, i ‘veri’ americani, figli di immigrati italiani o polacchi, dall’altra gli Sharks, portoricani, sbarcati di recente. In mezzo Tony e Maria. Lui è il fondatore pentito dei Jets, da cui ha preso le distanze dopo la prigione, lei è la sorella romantica di Bernardo, leader impetuoso degli Sharks. Tony e Maria si amano perdutamente e a dispetto dell’ostilità tra le gang, che provano a correggere con le canzoni. Ma chiedete a Romeo e Giulietta, l’amore non vince sull’odio, nemmeno in musica.
Che Spielberg fosse fatto per il musical lo sappiamo dal 1979 (1941 – Allarme a Hollywood). Date un’occhiata alla sua filmografia e scoprirete una ‘nota’ intonata sotto i film impegnati in primo grado a fuggire squali, tirannosauri, nazisti, agenti dell’FBI e capitani uncini.
È un bagliore, un frammento infilato di contrabbando nella scintillante ouverture di Indiana Jones e il tempio maledetto, dove Kate Capshaw canta “Anything Goes” in un costume di paillettes rosso. A guardarli (e ascoltarli bene) molti dei suoi film rivelano un inconfondibile DNA musicale: dal pas de deux di Always sulle note immortali di “Smoke Gets In Your Eyes” alla scazzottata “swing, swing, swing” di 1941 – Allarme a Hollywood, dalla crepa gospel blues di Il colore viola (“Sister”) all’incedere confidenziale di DiCaprio – Astaire sulle note di Sinatra (“Come Fly With Me”) e la falcata delle hostess-ballerine di Prova a prendermi, dalla voce infantile di Christian Bale ne L’impero del sole (“Suo Gân”) agli avatar di Ready Player One sollevati al di sopra del vuoto e sul dancefloor della Febbre del sabato sera.
“To Dad”, due parole posate sui titoli di coda, come un segreto. A settantacinque anni, Spielberg ha rielaborato ampiamente la separazione dei genitori ma quel trauma ha condizionato la sua vita e la sua opera che esalta l’amore, i legami e l’alterità.
Rilettura di “Romeo e Giulietta”, West Side Story non può che parlargli, quasi fosse stato scritto per lui e da lui, che da sempre racconta di ‘alieni’ che si oppongono all’ordine stabilito e alle ingiustizie, provando a cambiare il mondo. Chi meglio di Maria e Tony per integrare quella galleria? Chi meglio di due irriducibili innamorati che sfidano la realtà e si mettono a cantare per raccontarla più bella di quanto non sia? Eminentemente politica, la versione di Spielberg asseconda quella visione, attraverso la musica, il cinema, l’occhio incantato dell’amore, ma costruisce per contro un universo di linee da varcare, di barriere da abbattere, di reti da scalare, di fossi da attraversare, di scale da salire, di tutto quello che separa gli amanti, di tutto quello che devono vincere per amarsi.
Signore incontestabile del meraviglioso (E.T. l’extraterrestre) e della testimonianza sociale (Schindler’s List), colloca West Side Story all’incrocio dei pali. Quando Tony raggiunge Maria per cantarle il suo amore (“Tonight”) sulle scale antincendio della locandina originale, i loro volti sono separati da una griglia sottochiave, triste presagio di due anime prigioniere contro la loro volontà dentro identità nemiche.
Spielberg sceglie di ‘rinchiudere’ la coppia impossibile provocando un sollievo fisico quando Tony infine supera l’ostacolo e allaccia Maria in un abbraccio. È soltanto uno dei piccoli aggiustamenti che il regista propone per attualizzare l’amore nascente tra Maria e Tony. La storia, che declina il tema di Romeo e Giulietta nella New York degli anni Cinquanta, non è cambiata. Non sono cambiate le canzoni, solo leggermente ri-arrangiate da David Newman, non è stata stravolta la musica di Leonard Bernstein, non sono state toccate le parole di Stephen Sondheim e nemmeno lo spirito delle coreografie di Jerome Robbins, appena rinfrescate (e accelerate) da Justin Peck. Il lavoro di Tony Kushner, sceneggiatore e drammaturgo sottile, si limita a introdurre nei dialoghi e nella trama elementi che non cambiano il racconto ma lo intensificano, collocandolo più saldamente nella stessa epoca e mettendo in esergo tematiche già esistenti nella pièce originale. Kushner le enfatizza sottolineando il triste eco del presente.
Il confronto sociale al cuore del film non si lascia temperare dagli artifici della commedia musicale. Senza trucchi e senza effetti speciali, tranne quelli necessari a cancellare le parabole satellitari dai tetti di New York, West Side Story rivela tutta la sua crudeltà e il suo caos. Il razzismo endemico della società americana, l’ineguaglianza sociale ed economica, tutto è drammatizzato in maniera più esplicita che nell’originale. Il risultato è un film più viscerale, violento e politico che conferisce alle gang rivali e al loro malessere sociale un peso uguale al romanzo d’amore.
West Side Story mette l’accento sulla gentrificazione dei quartieri poveri di New York, in particolare dell’Upper West Side, ridotto in rovine, conteso da due clan e destinato a sparire, rendendo ancora più assurda e tragica la loro rivalità. I dialoghi, intelligentemente rivisitati, raccontano frontalmente la nostra epoca e tutto quello che ha di spaventoso: la paura dell’altro, l’individualismo esasperato, la mascolinità tossica. Anita tiene testa al macho Bernardo e la sua aggressione è chiaramente presentata come un tentativo di stupro.
In una New York teatro del mondo, il film abborda a muso duro il razzismo, la povertà, la lotta insidiosa tra classi invisibili, da cui nasce l’odio, e il sentimento di esclusione di due gruppi figli dell’immigrazione, di cui sottolinea somiglianze e differenze. In una sequenza rilevante in commissariato, Spielberg riscrive l’antagonismo deleterio tra la polizia, rafforzata per sradicare la delinquenza, e lo sforzo sociale necessario a favorire gli esclusi. Formidabile attualità di un classico. La distribuzione dei ruoli rispetta finalmente il carattere multiculturale del racconto. La comunità portoricana è interpretata da attori latini, parla spagnolo e invita il pubblico nella sua intimità domestica, donando un’autenticità e una tonalità differenti.
In un film di territorio e di frontiere, che discute in filigrana le questioni di identità e di comunità insistendo a più riprese su quello che definisce l’appartenenza a un sistema di referenze date o costruite (nazione, colore della pelle, lingua, origine…), Tony studia la lingua di Maria, tendendo la mano e costruendo ponti. Ha letto Shakespeare e sa bene che l’amore non basta ma adesso è innamorato e leggero come la macchina da presa che vola al di là delle linee nemiche, che va verso gli altri e li unisce in un tourbillon virtuoso.
Dal principio l’autore rompe la staticità del film di Robert Wise, affermando il trattamento più cinematografico del suo adattamento. La m.d.p. non è più spettatrice delle coreografie a cui prende letteralmente parte. Sposa la performance fisica degli attori, si mescola a loro, li sovrasta, accompagna i loro movimenti, li detta qualche volta, diventando un vero e proprio elemento della partitura gestuale di Justin Peck.
Spielberg riprende le stesse sequenze riadattandole abilmente fino a dare un significato altro alle canzoni. Nel gioco delle comparazioni, è la vedova portoricana di Doc (il droghiere di quartiere nella versione di Wise) a fare da ponte generazionale ed etnico, ereditando “Somewhere”, cantata nel 1961 da Tony e Maria. Caricando la musica di un simbolismo più universale, l’aria è affidata a Rita Moreno, indimenticata Anita e prova vivente che i matrimoni misti possono esistere “da qualche parte”, “in qualche modo”, “un giorno”. La canzone “Cool” interviene invece più tardi nel racconto e oppone Riff e Tony, cambiando di segno. La sequenza, girata sul molo e meticolosamente coreografata combinando ballo e zuffa, rinforza la drammaturgia e accentua l’implacabilità a venire. “Cool” passa dal capo dei Jets a Tony, ridimensionando la ‘danza per la danza’ e materializzando con una pistola l’abuso delle armi da fuoco in America.
Quel Paese, dispiegato in un canto euforizzante e in pieno giorno sulle strade di New York (“I like to be in America!”), suona oggi più di allora come un’illusione distruttrice. Perché Spielberg disegna una versione più cupa che moltiplica le zone d’ombra dell’America post-Trump, ricorrendo a una figura di stile ostinata: lunghe ombre nere che finiscono per inghiottire tutti i colori, il blu dei Jets e il rosso degli Sharks.
West Side Story resta fedele al suo modello (quello teatrale e quello cinematografico) ma racconta il suo rovescio, lo scacco drammatico del grande racconto americano abbattuto da un’enorme palla demolitrice. La stessa che al debutto demolisce il quartiere per costruire il futuro Lincoln Center e iscrivere il racconto in una politica urbanistica radicale. O magari, in maniera più sotterranea, lo iscrive in un cantiere battuto dai ballerini e dai fantasmi della cinefilia.
Aperto sul futuro Film at Lincoln Center, ‘piazza’ cinefila e attiva nella diffusione del patrimonio cinematografico, e chiuso sull’insegna di un locale chiamato Mac Mahon, tempio parigino consacrato negli anni Cinquanta alla commedia musicale americana, West Side Story canta tutto quello che ha contato per noi, tutto quello che è destinato a diventare polvere. Sulla sua superficie si depositano le tracce di mille film che Spielberg scuote coi tacchi gialli della sua esplosiva Anita, soffiando nuova vita sulle macerie e sulla nostalgia reinventata in permanenza. Ariana DeBose gira la gonna spaziosa e dimentichiamo l’adattamento, cantiamo e danziamo in uno Spielberg originale. (MYmovies)