Il complotto di Chernobyl – The Russian Woodpecker

Mar 26/4 ore 20.30
Ingresso a 2 euro, sarà nostro ospite il dott. Renato Fabrello.

Un film di Chad Gracia. Con Fedor Alexandrovich, Artem Ryzhykov, Andrei Alexandrovich, Elena Yagodovskaya.
Documentario, durata 82 min. – Ucraina, Gran Bretagna, USA 2015.

“Un monito universale e una ricerca audace, libertaria che a tratti riesce a trasfigurare anche la tragedia sul futuro del pianeta”

Durante le proteste antigovernative in Ucraina, nel gennaio 2014, il pittore e scenografo Fedor Alexandrovich rievoca il trauma vissuto da bambino a seguito dei fatti di Chernobyl (26 aprile 1986), il più grave disastro nucleare (prima di Fukushima) le cui cause furono imputate a errore umano. Convinto che non si sia trattato di un incidente, rabbioso per l’omertà tenuta dalle istituzioni all’epoca e insospettito dall’inquinamento delle prove, ipotizza che l’esplosione del reattore sia stata provocata intenzionalmente da Mosca per disattivare l’inefficiente e costosissimo radar Duga, costruito nelle vicinanze dell’impianto, voluto a scopi militari dal governo sovietico e chiuso proprio a settembre di quell’anno, quando avrebbe dovuto essere sottoposto a revisione. Addirittura individua come mandante Vasily Shamshin, ministro delle comunicazioni russo dall’80 all’89 e morto nel 2009.
Per dimostrare la sua teoria, si fa protagonista, insieme al cameraman e direttore della fotografia Artem Ryzhykov, di una rischiosa esplorazione, in cerca di conferme da parte di scienziati, di ormai anziani militari e tecnici allora in servizio e di alcuni superstiti. L’argomento principale della sua inchiesta è il russian woodpecker (“picchio russo”): un segnale costante a bassa frequenza, proveniente dalla Duga, che disturbava le trasmissioni radio ed era noto alle autorità e alla stampa di tutto il mondo, soprattutto statunitensi, fin dal 1976, anno di attivazione di quell’antenna imponente.
Nelle interviste in interni privati accordate dai pochi informati, si fa largo, analogamente a The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, più che la negazione della teoria di Fedor (tutta da provare), la fedeltà cieca al regime, il silenzio motivato dal terrore del ricordo del KGB. Una traccia narrativa che ripiomba lo spettatore in piena Guerra fredda, in un continuum inquietante tra passato e presente (dall’Unione Sovietica all’autoritarismo liberticida dell’era Putin), il cui equivalente visuale è un sintonizzatore che si muove avanti e indietro tra le frequenze radio come il regista fa con le fasi cruciali della sua storia: la fine del regime comunista e la conseguente indipendenza dell’Ucraina, i notiziari statunitensi di diverse epoche e toni, le riprese delle manifestazioni recenti a Maidan, quelle “rubate” tramite una GoPro (nascosta persino a Fedor) gli archivi del Museo nazionale di Chernobyl e le immagini degli orrori staliniani, di cui la sua famiglia fu vittima; e poi ancora mappe, animazioni in cg, filmati propagandistici di un periodo idillico prima del disastro, in cui il regime assicurava prosperità e sicurezza al popolo, e che a quello stesso negò la verità e gli strumenti per affrontare quella catastrofe immane, i cui esiti drammatici perdurano nel silenzio anche oggi.
Il dato più interessante è la commistione di piste e approcci: l’indagine sui responsabili vira a un certo punto verso la denuncia del regime di polizia in Ucraina, con le minacce subite da Fedor e Artem, abbracciando anche una riflessione sul Paese come storica terra di conflitto tra due blocchi contrapposti e la persistenza di un disegno egemonico russo. Oltre a ciò è rappresentazione di come un artista naif – il cui profilo è costruito drammaturgicamente dai suoi ‘a solo’ in camera e dalle voci delle persone a lui più vicine – rielabori lo choc di quello che chiama “genocidio” e la propria giustificata paranoia. Sperimentale, fantasioso e visionario al punto da sembrare falso, felicemente ibridato col background teatrale del regista e di Fedor, autore-interprete, The Russian Woodpecker (il titolo italiano è un po’ fuorviante) è ricerca audace, libertaria che a tratti riesce a trasfigurare anche la tragedia: è il caso delle riprese silenti e perturbanti, tramite droni, ma anche per mano dello stesso Fedor, che lo scala, del monstrum Duga (“creazione dell’Impero”); la ricognizione dell’area contaminata, il tappeto di maschere antigas (purtroppo inutili a evitare le radiazioni) di una scuola abbandonata in fretta, la ruota arrugginita del luna park, il palazzo dello sport deserto e pieno di macerie. Immagini che chiedono senso e si fanno monito universale a non ripetere l’atrocità. Gran premio della Giuria (World Cinema) al Sundance 2015.